Affascinato dalla natura,
travolto dall'arte

Ida Quintiliani

   Quando si parla di Guido Montauti si parla di un artista complesso, abbondante, effervescente ed eclettico, conosciuto dal grande pubblico, ma non abbastanza, studiato dalla critica, ma ancora oggi con troppi aspetti da chiarire e dettagli da scoprire. Numerose sono le circostanze che hanno determinato, a più di quarant’anni dalla sua scomparsa, tutto questo, di certo il procedere artistico e personale di Montauti è il risultato di un andirivieni articolato e ricco di momenti e situazioni assai diverse tra di loro. Va subito ricordato che egli, diventa artista di prim’ordine all’interno della scena nazionale e internazionale negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale; si divide tra Pietracamela, paesino d’origine situato ai piedi del versane teramano del Gran Sasso, e Parigi, dove frequenta mecenati ed espone in prestigiose gallerie d’arte; tra Teramo, dove vive la sua famiglia e le più importanti città italiane, come Milano, Roma, Venezia, in cui espone, da solo o in collettive, all’interno di quelle gallerie d’arte diventate palcoscenico della vita intellettuale e pubblica del Paese negli anni ’40 e ‘50.
   Il lavoro di studio e di ricerca condotto attorno a questo grande artista ha richiesto attenzione e metodo. Ormai da qualche anno, chi scrive, si è occupata di Guido Montauti e del suo lungo e ricco percorso creativo, con la volontà di scoprire e studiare ciò che è stato conservato negli archivi di famiglia. Lettere, articoli di giornali del tempo, pubblicazioni postume, cataloghi di innumerevoli mostre, foto e poi un numero sorprendentemente grande di disegni, acquerelli, olii, di piccolo e grande formato, realizzati in studio o all’aperto, lavorando ad una sola opera o contemporaneamente a cinque-sei – come ha raccontato Riccardo Riva durante una chiacchierata. Materiale preziosissimo che ci conduce alla scoperta di uno degli artisti della nostra città che meglio ha fatto parlare di se a Teramo e al di fuori dei confini cittadini, regionali e nazionali.
   Le opere selezionate, troppe per poter essere allestite in maniera adeguata nello spazio espositivo de L’ARCA e ancor più in Casa Raffaello, hanno trovato la giusta collocazione nelle pagine del catalogo, concepito come un vero e proprio libro monografico che cerca, nonostante la sua non completezza, di raccontare tutti i momenti più importanti della lunga produzione artistica di Guido Montauti. Nelle pagine del catalogo oltre a disegni, dipinti e fotografie, riecheggia anche la voce del pittore, attraverso un’attenta selezione di dichiarazioni, interviste o piccoli testi che accompagnavano presentazioni e cataloghi, senza trascurare la critica che negli anni ha parlato di lui, anch’essa in parte selezionata e riportata. Oltre alla ricomposizione della vita pubblica del pittore, ampio spazio è stato dedicato allo studio dell’archivio di famiglia e lunghe chiacchierate sono state fatte con i figli e con gli amici di una vita, per cercare di ricucire e mettere a disposizione dei visitatori chiavi di lettura nuove, corrette e chiare.
    All’interno di una geografia ricca e articolata, fatta di città e di spostamenti, di incontri irripetibili e di momenti importanti, si muove per quarant’anni Guido Montauti, il quale non mai smetterà mai di cercare la forma perfetta della sua arte. Indipendente, indifferente alle pressioni esterne, risoluto davanti alle sconfitte, testardo, lucido e attento, soddisferà fino agli ultimi giorni l’insaziabile bisogno creativo. Conoscitore dell’arte contemporanea ma anche di quella moderna, rinascimentale e medievale, basti pensare che uno dei suo artisti preferiti era Piero della Francesca, uno dei più grandi pittori italiani del ‘400, senza dimenticare Picasso, Van Gogh, Cézanne e Paul Klee. Ma andiamo per ordine, cercando di ripercorrere i momenti più importanti delle sua attività artistica, senza trascurare gli aspetti più strettamente personali.
    Guido Montauti nasce il 25 giugno 1918 a Pietracamela, li vive per tutta l’infanzia e l’adolescenza con la sua numerosa famiglia, proprietaria dell’unico albergo del paese. Trascorre intere giornate ai piedi dell’incantevole e maestoso Gran Sasso, scandite al ritmo di una natura bucolica e per molti aspetti ancestrale. Ed è probabilmente proprio lì che il giovane Guido impara ad osservare, a scrutare, ad amare e a ritrarre la natura e le persone che la abitano, lo fa da solo, senza una scuola di disegno o un’insegnate. In una dichiarazione del 1948 dirà “La prima volta che vidi un quadro incomincia a dipingere […]”, ma purtroppo non abbiamo documenti o testimonianze per ricostruire una storia più precisa e dettagliata di questo inizio. Di certo in Montauti è presente un evidente talento innato, che incontra una spiccata sensibilità d’animo e una fantasia esuberante e implacabile. Egli si lascia ispirare dalla bellezza di quei luoghi d’origine, fatti di roccia e di strapiombi, di cieli azzurri e di orizzonti infiniti e talvolta costellati di pareti grigie di roccia dolomitica. La natura è per Montauti la prima vera insegnate, immensa nei suoi spazi, audace nelle sue forme e dalla forza prepotente, capace di rinascere ogni giorno e di svelarsi sempre diversa nella sua staticità.
    “Io sono Pietramalteco!” così amava definirsi, con un gioco di parole che rimanda al termine guatemalteco, con cui si indicano gli abitanti del Guatemala, che rivela tutta l’ironia di un uomo intelligente, bravo con le parole e legato in maniera viscerale alla sua Pietracamela.
    Dal 1937 al 1945 si muove, a causa della guerra, tra Italia, Francia, Albania e Macedonia attraversa mezza Europa e numerosi campi di battaglia, in Francia è chiamato ad affrontare una lunga prigionia da cui riuscirà ad evadere. Da quel momento si fa chiamare Reillel de Bellock Emile, diventa maquis e partecipa al Movimento della Resistenza Francese. Nonostante le vicende rocambolesche di questi anni il suo zaino è sempre ben fornito di pennelli e colori, cartoncini o piccole tavolette di compensato, per dipingere paesaggi incantevoli e scene di quella triste quotidianità di soldato, che da molti anni era la sua quotidianità, lontano da casa e dalla famiglia. Egli stesso racconta di aver potuto dipingere solo in Macedonia e in Lorena, in una lettera inviata alla moglie nel 1944 da Vittel, in Francia, parla di un’attività irrefrenabile e proficua, addirittura dice di aver realizzato poco più di 200 quadri. Possiamo dire noi oggi che alcuni di questi piccoli acquerelli sono la dimostrazione di un’iniziale e brillante carriera di un giovane autodidatta dalla capacità tecnica e compositiva incredibile. Nature morte, tantissimi paesaggi, soldati e scorci dalla resa elegante e raffinata, piccole e leggere pennellate dal tocco delicato e dagli accostamenti cromatici equilibrati. Questi sono i soggetti che Guido Montauti preferisce durante la guerra, un soffice incanto, un sogno, forse la sua personale maniera per uscire dalla realtà atroce ed entrare in uno spazio irreale, pittorico e ben diverso dal vero, un racconto malinconico dei lunghi anni trascorsi lontano da casa.
    Montauti oltre a disegnare e dipingere tantissimo scrive poesie e piccoli sonetti. Tra quelli più interessanti, perché capace di darci una chiave autobiografica del pittore è questa piccola poesia, scritta a Vittel, datata 15 aprile 1944 dal titolo Bugie e illusioni ”Di far bugie ho il vizio/ma senza malizia/e di far illusioni./Esagero sempre in tutte le cose/per far contento/chi sente./ io dico,/s’eran dieci,//se in buona parte son morti./Tutti lo sanno,/nessuno più mi crede./Se alcun dicemi /ho in mano il mondo./In pittura e in poesia/non dico bugie,/m’illudo soltanto”.
    Questo giovane soldato, che nel 1943 approfitta di una licenza per sposare Adelaide Di Iorio, da cui avrà due figli, con una chiara e piena consapevolezza di se e con la voglia manifesta di fare arte, ironico come già abbiamo detto, autoironico come emerge dalla poesia e con un obiettivo molto chiaro: diventare pittore. Per farlo non aspetta la fine della guerra, in questi anni non solo dipinge, appena può fa vedere in giro i suoi quadri, che forse cerca anche di vendere e che, come racconta in una lettera, suscitano grande interesse soprattutto tra le persone di Parigi e di Londra, con cui stringe rapporti e conoscenze.
    Già dal 1936 aveva partecipato a mostre collettive o personale ma sempre nell’ambito regionale, subito dopo la guerra le cose cambiano e nel febbraio del 1946 tiene la prima mostra a Milano presso la Galleria Casa d’Artisti, dal titolo 12 Artisti Contemporanei. Si presenta al grande pubblico con gli acquerelli e qualche tecnica mista realizzati durante la guerra. Il consenso della critica è unanime, di seguito qualche piccolo commento apparso sui giornali dell’epoca: “E’ una raccolta di pregevoli acquerelli, dipinti in prigionia, che meritano di essere osservati e discussi per la raffinata sensibilità e le possibilità che l’autore vi rivela.” e ancora “Guido Montauti è un modesto ma valoroso pittore che in una serie di eccellenti acquerelli svolti in una tecnica personalissima ricca di delicati accostamenti e di finezze tonali spesso assai raffinate[…]”
    Nel 1947 partecipa con successo al Premio Diomira, premio nazionale dedicato al disegno istituito l’anno precedente per iniziativa della pittrice Giorgina Bertolucci Di Vecchio, in memoria della figlia Diomira, scomparsa nel 1945. Il disegno presentato da Montauti, Ragazzo seduto, viene giudicato da una giuria di tutto rispetto, basti ricordare solo due nomi: Domenico Cantatore e Giacomo Manzù, questo il commento riportato in catalogo: “La sua è pittura di pensiero, intenta e come trasognata.” inoltre viene considerato meritevole per poter essere esposto insieme ad altri disegni presso alla Galleria del Naviglio di Milano. Il commento della giuria coglie a pieno il lavoro che il giovane Montauti stava portando avanti, infatti questa analisi critica può essere estesa anche ad altri disegni contemporanei al Ragazzo seduto, che sono presenti in questo catalogo e in mostra e che ribadiscono la forza e la verità di quel giudizio della giuria del Premio Diomira.
    Per due anni, tra il 1946 e il 1948, dipinge alacremente e abbandonato il piccolo formato, dettato dalle necessità di guerra, si appropria di uno spazio pittorico più ampio e soprattutto pieno di colore. Mette da parte gli acquerelli in favore dell’olio e come si è appena detto del colore, che diventa prepotente e sfacciato, brillante e per certi versi audace. A questo punto è pronto per affrontare la sfida di una mostra personale, in una della gallerie d’arte italiane più note e prestigiose, nel 1948 Guido Montauti espone per un mese ventitré dipinti in Galleria Sandri a Venezia. Dal pittore Gastone Breddo, che nel catalogo presenta il giovane artista, ai giornalisti e ai critici che danno notizia della mostra, tutti sono concordi sul fatto di avere di fronte un giovane ma evidentemente talentuoso artista, ancora acerbo per certi versi e al tempo stesso autentico, appassionato, con una grande capacità di immaginazione e una gran voglia di raccontare. Di certo Montauti è uno di quegli artisti nuovi da tenere d’occhio o meglio ancora come dice Breddo: “[…] Nel disordine dei suoi tasselli colorati, come nel sangue una incontenibile volontà di racconto, c’è qualcosa in Montauti che ci chiede credito. […]” Tra le varie opere esposte, quella per cui bisognava dare credito era di sicuro Anno ’48 dotata secondo la critica di una forza viva, resa possibile dal temperamento, dall’espressione del colore, dall’illuminazione aperta, a tratti visionaria e fantastica del pittore.
    Ancora Venezia e ancora la Galleria Sandri. Nel 1950 il pittore ritorna di nuovo in laguna, forte del successo ottenuto durante la precedente occasione e dell’ottimo lavoro di ricerca che costantemente porta avanti. In mostra, anche questa volta più di venti opere e di nuovo una presentazione di tutto rispetto firmata dal pittore Remo Brindisi. La critica torna a parlare dell’esasperazione del colore, data ad esempio dal rincorrersi dell’utilizzo dei complementari e della presenza di atmosfere espressioniste, surrealiste e visionarie. Ma questa volta emerge un nuovo elemento, Montauti appare più fedele alla realtà, a quella sua realtà di giovane abruzzese, dato anagrafico che ovviamente tutti ricordano, su cui spesso si insiste, ma sempre inteso come elemento da esaltare per rafforzare la ricerca e l’esperienza artistica del pittore, capace di superare gli ostacoli intellettuali e geografici dell’Abruzzo. Le figure umane iniziano a farsi monumentali, liberandosi, come scrive Gino Damerini sulla “Gazzetta Veneta”, dalla confusione di particolari disordinati, presenti nelle opere precedenti. Montauti fa parlare e non poco, suscita interesse, ammirazione seppur mista a qualche inevitabile critica. Così il 16 aprile del 1950 finisce nella prima pagina della Fiera Letteraria, Settimanale di lettere, scienze e arti con un articolo a firma di Valerio Mariani, storico, critico d’arte e docente universitario, le opere selezionate che accompagnano l’articolo sono Sposalizio e Crocefissione, il giudizio che viene fatto alle sue opere è attento, rigoroso e puntuale. Mariani di certo riesce a cogliere al meglio l’arte del pittore Montauti: “Il mondo pittorico di questo artista è, infatti, spontaneamente ambientato in una visione fantastica la quale, però, possiede sempre una forte esperienza realistica: e i suoi contadini legnosi, le sue donne di campagna dai volti bruciati e dai grandi occhi assorti, gli nascono da una profonda esperienza umana, che poi si trasferisce in un acceso tormento fantastico. […]”. A conferma della lettura critica che fa Mariani c’è la dichiarazione di Guido Montauti riportata nella prima pagina del cataloghino della mostra: “Ho fiducia nella mia fantasia e nel mio sprezzante mestiere, […]” ed è proprio così, l’artista si affida alla sua fantasia, di matrice realistica, per questo mai esagerata o banale, anzi Montauti ci mette di fronte ad una fantasia che ha i piedi per terra, ad una fantasia terrena che ci fa andare oltre, ma senza allontanare troppo lo sguardo.
    L’estate del 1950 è l’estate della Biennale di Venezia, Montauti partecipa con uno dei dipinti con cui meglio aveva fatto parlare di se a Venezia qualche anno prima, Anno ’48. L’opera verrà esposta nella sala appena successiva a quella in cui si trovano Titina Maselli e Lucio Fontana.
    Il rapporto con Venezia in questi anni è veramente intenso e frenetico, tanto da trovare, tra gennaio e febbraio del ’51, di nuovo spazio in Galleria Sandri. La ricerca pittorica e stilistica di Montauti è incessante e, pur mantenendo grande coerenza con se stesso, rivela secondo la critica, “ […] una fede che ha solidità delle sue creazioni […]“. Dichiarazioni come questa arrivano da giornalisti e critici d’arte che, per loro stessa ammissione, affermano di guardare, ormai da anni, con attenzione e gradito interesse, il lavoro del pittore arrivato dal Gran Sasso, nell’attesa di assistere alla liberazione completa di certi schemi statici ancora presenti in alcune opere. L’auspicio della critica era quello di vedere, di lì a poco, l’intera produzione artistica di Montauti definita da un movimento delle figure capace di essere espressione, così come già in alcuni di questi dipinti era accaduto.
    I soggetti restano gli stessi: uomini, donne e animali con le consolidate forme rozze e primitive che riportano la pittura di “[…] Guido Montauti alle caverne, ai margini cioè della storia.”, così afferma il critico Carlo Munari in un articolo del 1951. La tavolozza invece è più complessa non solo colori abbondanti, non solo complementari e forti contrasti, ma anche la leggera eleganza dei blu e dei grigi dai toni più delicati, che fanno tornare alla memoria i piccoli acquerelli.
    Nel 1951 non solo Venezia, ma anche Milano accoglie Montauti. La Galleria San Fedele tra aprile e maggio espone un numero cospicuo di opere dell’artista, trentasette tra disegni e dipinti, realizzati tra il 1948 e il 1951. Una nota a piè di pagina del catalogo precisa che la prossima mostra sarà dedicata alle opere datate 1933-1947, questo annuncio di impegni futuri testimonia la grande attenzione nei confronti di un pittore acclamato dalla critica e dal pubblico. La mostra tende inoltre a ribadire l’autonomia del suo linguaggio, fatto soprattutto di ampie architetture naturali e di figure, un equilibrio espressivo che ogni volta mette di fronte lo spettatore alla possibilità che l’opera d’arte possa nascere con lo stesso metodo creativo della natura.
    Non abbandona mai il disegno, soprattutto quello che trova ispirazione nel paesaggio, nella sua Pietracamela e nel Gran Sasso, luoghi in cui si rifugiava ogni estate per lunghi periodi, una sorta di terapia per lo spirito, per gli occhi, per l’immaginazione e per la creatività. Numerosi sono i taccuini giunti fino a noi che raccontano le lunghe passeggiate e i momenti di meditazione davanti ad uno scorcio ai piedi di una parete di roccia. Ma non solo paesaggio. All’inizio degli anni ’50 realizza disegni di grande formato dove protagonista è soprattutto la figura umana, uomini urlanti e deformati nelle proporzioni, riempiono tutta la superficie dei fogli, in alcuni di questi è possibile ritrovare le stesse donne diventate poi protagoniste di qualche dipinto.
    Dal 1952 al 1962 Guido Montauti, grazie al successo ottenuto in Italia, ha modo di stringere importanti e duraturi rapporti con il mondo del collezionismo e delle gallerie francesi. Per un intero decennio si dividerà tra Parigi, dove vive a Montparnasse, e Teramo, dove risiede la sua famiglia, ormai composta dalla moglie e da due figli, Pier Luigi e Giorgio, senza disdegnare impegni in altre città italiane. Purtroppo non abbiamo testimonianze certe di come Montauti arriva ad un approdo così tanto importante, forse durante gli anni della guerra aveva conosciuto qualcuno che riuscirà poi a fare da tramite, di sicuro la sua tenacia e la volontà di riuscire, certamente tutto quello che stava succedendo in Italia attorno alla sua arte creeranno delle condizioni, seppur sconosciute, ma evidentemente favorevoli a tutto questo.
    A luglio del 1952 la Galerie Art Vivant organizza una mostra, la prima di una lunga serie, dedicata al lavoro dell’artista italiano. Il commento di Jacques Olivier, che presenta Montauti con un testo introduttivo pubblicato in catalogo, parla di forme primitive, pesanti e dure, a tratti un po’ grezze, ma si dice convinto della necessità di fidarsi dell’evoluzione della ricerca del pittore e certo di un traguardo positivo.
    Grazie a T. Carmine, di cui sappiamo solo il cognome, conosce Salvatore Di Giuseppe, collezionista e mecenate, italiano d’origine e parigino d’adozione, vecchio amico di Umberto Boccioni, il quale sancisce con Montauti un rapporto di stima e di fraterna amicizia, inoltre stipulerà con il pittore un contratto, che ovviamente riuscirà a dare a Montauti stabilità economica e tranquillità creativa.
    Il 21 gennaio 1954 è la data in cui viene inaugurata la seconda mostra parigina del teramano Montauti, anche questa volta è la Galerie Art Vivant ad accogliere i quadri del pittore italiano e come racconta Giammario Sgattoni, il 15 luglio dello stesso anno sulle pagine del “Tempo”,: “[…] Un coro di consensi si levò dai microfoni della Radiodiffusione francese e dai microfoni della rubrica italiana “Parigi vi chiama”; ma soprattutto dalle colonne di “Arts Documents”, “Le Monde”, “Paris Comoedia”, “Nouvelles Littéraires”, “Arts”, “Combat”, “Les lettres françaises”, “Liberation”, ecc. […]” Ricorda sempre Sgattoni che l’eco dei consensi parigini arrivò fino a Teramo, tanto da spingere la Città, grazie all’aiuto del giudice del Tribunale Giovanni Sabalich, profondo ammiratore di Montauti, libero da qualsiasi dovere campanilistico, visto che veniva da fuori città, ad organizzare nel luglio dello stesso anno una conferenza dal titolo “L’Arte contemporanea e la pittura di Guido Montauti” a cura di Valerio Mariani, presso il Circolo Teramano, che negli anni aveva accolto per piccole esposizioni le opere del pittore. Ad accompagnare le parole del professore c’erano dodici quadri, selezionati dall’artista stesso, dipinti realizzati di recente, così da dare contezza immediata di come stava evolvendo la sua pittura. La partecipazione fu numerosissima, persone di diversa estrazione sociale avevano lo stesso orgoglio e la stessa voglia di ascoltare commenti e considerazioni sul concittadino diventato famoso Oltralpe. Montauti prese la parola prima di Mariani e ringraziando, commosso ed emozionato, disse che Picasso era il deus ex machina dei sui pensieri più segreti. Chissà, magari oltre ad essere la verità era anche un piccolo gioco, un vezzo di un uomo ironico e intelligente, per nulla modesto, che in numerose occasioni, con disinvoltura e davanti a chiunque si metteva sullo stesso piano di Van Gogh e Picasso, creando parallelismi o addirittura anteponendosi a loro “Io e Picasso.” “Io e Van Gogh”. Del discorso fatto da Mariani di sicuro va ricordato un punto su cui si soffermò a lungo e cioè la libertà di Montauti e la non appartenenza a nessuna corrente, infatti pur conoscendole tutte molto bene, per il Professore l’arte di Montauti è guidata da un’unica matrice che è il suo essere abruzzese, ma di quell’Abruzzo presente nella figurazione scultorea medievale dell’Abbazia di San Clemente a Casauria, che raccontano (le statue medievali come le figure di Montauti) di un’arte primitiva e potente, con un forte sentimento vergine che, a stento, riesce ad essere contenuto dentro i limiti delle cornice, a causa della loro forza esplosiva.
    Il 1955 è un anno ricco di appuntamenti con il pubblico, ben cinque mostre tra l’Italia e la Francia: Milano, Nantes, Parigi. Ad aprire questo momento così intenso è la Galleria Cairola, una delle più importanti di Milano. Critica e pubblico riconoscono l’arte di Montauti e si entusiasmano all’idea del successo che sta avendo in Francia, da alcune dichiarazioni del pittore viene fuori la sua soddisfazione per i lavori realizzati tra il ’54 e il ’55, che definisce superiori rispetto alle cose che aveva portato a Parigi nel 1952. La critica francese ormai parlare di un’artista completo, il quale pur sempre impegnato in una complessa e continua ricerca, mantiene una capacità artistica ed espressiva fuori dall’ordinario, unita ad una forza rude e dirompente. Il colore, che sempre di più viene spalmato con pennellate larghe, grazie all’utilizzo del pennello piatto, è fatto di impasti grigio, ocra e verde-grigio, capace di donare alla figure sempre di più l’aspetto di rocce. Complice di questo cambiamento della tavolozza non è soltanto la volontà di creare delle donne e degli uomini sempre di più simile alle loro montagne, di sicuro ad influenzarlo è anche la luce che l’artista conosce a Parigi, una luce diversa da quella calda e mediterranea della sua terra e della sua montagna che guarda il mare.
    Sarà proprio il clima francese e il bisogno di ritornare alla vecchia fonte di ispirazione, unita probabilmente alle necessità familiari che spingeranno Montauti, nel 1962, a rientrare definitivamente a Teramo, lasciando così Parigi. Di certo nell’ultimo periodo sopraggiunsero problemi con Di Giuseppe il quale, pur continuando a credere nell’arte di Montauti e dimostrandogli stima e sincero affetto – di tutto questo è testimone la lunga corrispondenza tra i due - chiedeva all’artista Montauti una pittura più gradevole che potesse così favorire la vendite dei quadri. E’ inutile dire che il pittore, da sempre fedele alla sua ricerca espressiva, mai accettò questo compromesso. A favorire il rientro fu anche la morte di Salvatore Di Giuseppe.
    Nell’ottobre del 1962 Montauti partecipa in Galerie Espace all’ultima mostra francese prima di fare rientro a Teramo. Non sappiamo quali quadri espose in questa occasione, di sicuro ad accompagnare il testo di presentazione del piccolo cataloghino c’era un disegno datato 1962, ma leggendo lo scritto a firma di Jean Clausse, sappiamo che in quei dipinti si avvertiva sempre di più un’armonia tra i campi e gli uomini, una sorta di beata tranquillità resa da un pittore dai forti tratti solitari, decisamente sensibile e ancora al di fuori di qualsiasi scuola. Questo commento e soprattutto questa produzione può essere considerata preludio di quel periodo che da molti è stato definito “sintetico” (controllare bene da chi, quando…).
    Il rientro in Italia viene anticipato da una lettera di Giorgio Morandi, il quale il 13 febbraio 1962 scrive a Guido Montauti per complimentarsi della sua produzione artistica dichiarando di aver provato sincero interesse nel conoscerla. L’artista bolognese si riferisce ai disegni comparsi nella pubblicazione monografica interamente dedicata a Guido Montauti, a cura di Maximilian Daudet, dal titolo Guido Montauti uscita l’anno precedente. La pubblicazione, interamente francese, parla di “accenti disperati” e sappiamo bene quanto negli artisti, al contrario delle persone comuni, la disperazione è vitale, amplifica l’immaginazione e la creatività. Così Montauti confessa, attraverso i disegni e i quadri, tutta la solitudine di uomo di montagna e prova anche a dare voce alla sua gente, a quella gente che vive ai piedi della montagna, immersa costantemente in una disperata quotidianità. L’urlo, inteso come grido di dolore, in pochi casi si fa evidente nella figurazione del pittore, alcune volte però diventa protagonista, soprattutto nei disegni degli anni ’50, con qualche sviluppo pittorico. Spesso il dramma personale è vissuto con dignità o peggio ancora con quella garbata staticità che vuole rivelare ben altro.
    L’attenzione dei francesi nei confronti dell’artista arrivato dell’Abruzzo continua ancora ad essere forte, tanto che la Galerie Transposition gli dedica una monografia a cura di Daniel Israel-Meyer, critico del settimanale Arts, il quale procede ad una puntuale sintesi dell’intera produzione artistica di Guido Montauti, settantaquattro le tavole pubblicate, datate 1942-1962. Ciò che viene fuori, sfogliando le pagine del catalogo dal piccolo formato, è una successione cronologica delle opere dell’artista, tutte volte all’insegna della semplificazione, che viene definita purificazione e che pian piano libera lo spazio pittorico. Il dettaglio abbandona lo spazio della tele e l’interesse di Montauti, senza mai sconfinare nell’astrazione, almeno non fino a questo momento. Dopo vent’anni di attività il pittore arriva ad una semplificazione estrema, tanto da tracciare una semplice linea curva che diventa collina. Ora che ha superato la realtà e la rappresentazione dove arriverà l’arte di Montauti? Come riuscirà ad andare avanti?
    Rientrato Teramo il pittore, che aveva sempre lavorato e dipinto a casa in Piazza Martiri Pennesi, dopo qualche tempo prende in affitto uno studio, in un vicoletto vicino all’antico Teatro romano. La scelta è dettata da un nuovo progetto che si stava delineando e che prende forma pubblica il 1° novembre del 1964, a Roma presso Palazzo delle Esposizioni. In questa occasione l’artista, quasi cinquantenne, torna a parlare al grande pubblico non come Guido Montauti, ma a firma collettiva “il Pastore Bianco”. Il Gruppo è composto da un pastore di Pietracamela, Bruno Bartolomei classe 1941, considerato figura simbolica del Gruppo, con lui ci sono tre giovani artisti teramani: Alberto Chiarini del 1939, Diego Esposito del 1940 e Pietro Marcattilii, nato nel 1932. Tutti più giovani di Montauti, tutti aspiranti artisti che riconoscevano nel Maestro una figura carismatica e affascinante, che mai si rivelò predominante rispetto a loro, almeno mai questa fu la sua volontà. E’ indubbio che la matrice predominante della loro produzione era quella di Montauti, che come un capo bottega quattrocentesco o rinascimentale coordinava e dirigeva i ragazzi più giovani, volenterosi di imparare e con una loro autonomia che di li a poco si sarebbe manifestata. A caratterizzare la produzione artistica de il Pastore Bianco sono sopratutto le tele di grande formato, undici per l’esattezza, unite poi a sessantacinque di piccolo formato che arrivarono a Roma per la prima mostra. Le intenzioni dei promotori, chiare e ben descritte nel catalogo, guardavano alla necessità di riportare la figura umana al centro della pittura. Le reazioni furono diverse e contrastanti, come spesso accade davanti a provocazioni cosi forti, di sicuro l’arte di Montauti continua la sua costante ricerca ed evoluzione, che non si arresta davanti allo spazio finito della tela ma va oltre. Con il Gruppo Montauti porta avanti una vera e propria azione di Land Art, forma d’arte contemporanea che si caratterizza per un intervento diretto dell’artista sul territorio naturale, specie negli spazi incontaminati, queste opere spesso hanno carattere effimero. L’aspetto interessante è che la Land Art si delineerà in America tra il 1967 e il 1968, per poi arrivare Europa. L’anticipazione viene messa in atto a Pietracamela presso le Grotte di Segaturo, grosse pitture realizzate sulla roccia, che hanno la capacità di rafforzare sempre di più il rapporto tra l’artista e la sua terra. Il Gruppo dipinge diverse figure umane, dalle dimensioni gigantesche, di colore bianco, rosso, nero, ocra e blu, alcune sono sedute, altre in piedi, divise in gruppi. Chiamate anche pitture rupestri, il rimando alle antiche officine pittoriche del neolitico, come afferma Bruno Corà è fortissimo. L’essenzialità della forma delle figure e delle pose è l’elemento predominante. Purtroppo l’effimero di cui si parlava sopra in questo caso si è manifestato in tutta la sua forza a causa della violenza della natura, che nel 2011 con una frana in zona Capo le Vene, appena sopra il borgo di Pietracamela, ha travolto e distrutto le Grotte di Segaturo e con se le pitture rupestri, solo in parte tratte in salvo.
    La Biennale di Venezia, in questo stesso anno consacra la Pop-Art americana e due anni dopo, nel 1966 sempre a firma il Pastore Bianco Montauti e il resto del Gruppo intraprendono un’azione legale contro la Biennale di Venezia che, secondo gli artisti teramani, “[…] ha superato ogni potere discrezionale, ha sconfinato nell’arbitrario, determinando così una palese lesione dei diritti dei cittadini e, in particolare, di coloro che al mondo artistico appartengono[…]”.
    Seguiranno anni di una lenta ed inesorabile chiusura dell’artista, che forse palesa in maniera chiara e non più spavalda, il suo amino solitario e a tratti inquieto. Guido Montauti si chiude nel suo studio, dipinge un numero impressionante di quadri, sperimenta, mette in atto soluzioni, va avanti nella sua ricerca pittorica. Non espone più, non partecipa a manifestazioni pubbliche e non cerca più compratori o gallerie e altro tipo di consenso. Riceve amici, li incontra, ne conosce di nuovi, ma sempre in una dimensione privata.
    I suoi dipinti si popolano di figure singole e solitarie, uomini e donne, dall’aspetto deforme e dallo sguardo abbandonato. La pellicola pittorica si fa più pesante, densa, Montauti ora ritorna spesso sulle opere, cambia i soggetti dei dipinti, lavora contemporaneamente a più tele che non dispone più sul cavalletto, come sia abituati a vedere nelle sue foto, adesso ha iniziato a lavorare chino su di loro, sistema le tele in terra, quasi in segno di reverenza. Questa non è la maniera romanzata e romantica che usa chi scrive per narrare dell’artista, sono le conclusioni che nascono dai racconti e dalle dichiarazioni lette nei documenti d’archivio, che ci parlano di un artista il quale considerava il suo studio un Tempio. Chi entrava li dentro pare dovesse togliersi le scarpe, segno di riverenza o semplice necessità data dall’invasione delle tele a terra? Chissà, potrebbe anche essere solo l’ennesima conferma dei suoi giochi con le parole, della sua ironia e della spiccata intelligenza, per questo capace di romanzare da solo la propria vita.
    Nel 1969 arriva un nuovo impegno, una sorta di riconoscenza della Città al Maestro, che per mano di Nerio Rosa, gli affida la cattedra di Figura disegnata presso il Liceo Artistico, che oggi è intitolato proprio a Guido Montauti. L’avventura dell’insegnamento, di sicuro inaspettata e mai ricercata, si rivela in realtà una bella carica di energia, il contatto con i ragazzi diventa fonte di nuove ispirazioni e spingendo l’artista verso i più recenti approdi. Oltre a pennellate veloci che creano vortici e segni grafici come se fossero una scrittura tutta personale, le tele si riempiono di fili non troppo sottili, che ricordano fili d’erba, colorati e ricchi di movimento. Ma l’ultima soluzione pittorica di Guido Montauti, a pochi anni dalla sua prematura scomparsa, avvenuta il 14 marzo 1979, a causa di un brutto male, è il bianco. La sua capacità avvolgente e purificatrice dona alle opere di questo periodo una linea di assoluta purezza e perfezione, alludendo all’infinito. Questo colore investe le ultime tele del pittore, con la solita dirompenza che ha sempre contraddistinto l’esperienza artistica di Guido Montauti, arriva è diventa protagonista assoluto.
    E come la scena finale di un film che si chiude con una dissolvenza al bianco, creando un forte senso di ambiguità e di sospensione, così ci lascia Guido Montauti, con questa dichiarazione, “Il bianco è una rivelazione, i colori vi debbono appena entrare”.