Guido Montauti, un maestro abruzzese del Novecento
di Paola Di Felice
Guido Montauti ha dipinto se stesso dentro e fuori e, anche quando ha dovuto rimpiangere veramente la mancanza di tempo, di spazio, di atmosfere giuste, ha continuato a farlo, portatore di sentimenti, bisogni, attese, al pari di quella natura che egli elegge a protagonista del suo sentire.
La sua produzione forse e' anche per questo di una vastita' impressionante; centinaia di dipinti, da tele di grandi dimensioni a minuscoli foglietti, da disegni di pochi tratti a vaste composizioni. Non e' stato quello del dipingere un tempo alla ricerca di se stesso; e' stato piuttosto una parte essenziale nella espressione creativa di un uomo che non ha conosciuto argini, la cui dilagante vitalita' espansiva (fatta di esperienze, incontri, viaggi, impegno) ha avuto anche bisogno di pause di silenzio, di solitudine, di intimita' davanti alla tela. Cosi' dinanzi alla superficie pittorica egli ha potuto confrontarsi con se stesso offrendo, nel suo lungo tempo dedicato al dipingere, una sorta di autoritratto ininterrotto e diffuso. All' inizio Guido fa capolino nei suoi quadri con le sue nature morte di memoria morandiana, le case e i luoghi della sua infanzia, i suoi paesaggi con l'apparizione tra gli elementi arborei di ''fantasmagorie umane''. Ma a poco a poco egli conquista la scena, diventa il protagonista assoluto, deformato, accennato, appena intravisto, nascosto nell'evanescenza liquida di un colore oppure, all'opposto, in un grumo di materia quasi informe, eppure sempre inconfondibile. Appena scoperta, la pittura insomma conquista Montauti. La diga si rompe : e' un diluvio di progetti sulla pittura, un turbine di sogni realizzati, alternati a utopie fantasiose. Giovanissimo, e' fuori dalla sua ''tana'' assai per tempo. Costretto dalle vicende belliche, e' in Grecia, Albania, Austria, Germania, Francia dove dipinge olii di piccolo formato e numerosi acquerelli e, alla fine della guerra, si pasce di esperienze diverse, recupera i disagi di una guerra subita, di una prigionia sofferta a contatto col dolore e la sofferenza. Come se, reso diverso dalla ''brutta'' guerra, Guido sentisse il bisogno di circondarsi della forza cosmica della natura, di quelle rocce, che avevano nutrito l'immaginario della sua infanzia, sino ad assimilarle ad esseri viventi chiusi nella ''opacita''' del male. Energia vitale e solidita' non come rifugio privato ma come condizione diffusa, sparsa a piene mani, accessibile a tutti, parte integrante della vita di ciascuno di noi. L'approdo alla pittura forse può essere stato casuale, da autodidatta, ma non c'e' dubbio che per tutta la vita Montauti abbia in essa cercato, rincorso, amato la carica vitale, l'imponderabile, il magma cosmico, da identificarsi soprattutto con la natura, sentendosi sempre a proprio agio a contatto con le arti figurative. Cosi' fra le sue annotazioni compaiono, rapidi e luminosi come lampi, abbaglianti giudizi critici, frasi che dimostrano un amore sconfinato e, insieme, un gusto raffinato educato da una lunga, appassionata e silenziosa ''frequentazione'' dell'arte, in una ricerca continua di realismo, solidita' d'impianto, forza timbrica dei colori, gioco delle forme.
E in questa ricerca ci sono due aspetti che colpiscono: la ricerca pittorica, che ha attraversato mediazioni anche di oggettualita' e la mobilita' immaginativa, con una sua sostanziale liberta' di determinazione. Quella liberta' che gli consente di evidenziare l'immagine in termini assolutamente eventici ma anche di convogliare la sua immaginazione verso archetipi, simboli, ricorrenze oniriche e surreali. Gia' negli anni Cinquanta, nei soggetti di natura profana (Maternita', Orgia in campagna, Colazione nel bosco, Natura morta con la maschera) o di matrice religiosa, (come in S. Sebastiano, nella Crocifissione, nella Piccola Chiesa sulla roccia) e' nella dimensione dell'evento emotivo che l'artista risolve ogni componente allusiva: sensazioni, percezioni, memorie, pulsioni emotive, liberamente inseguite, evocate, registrate. perche' e' proprio nello spessore dell'evento l'allusivita' intensa dell'immagine pittorica di Montauti; la sua capacita' di trascorrere, da esiti di pura vocazione lirica e di sostanziale rappresentazione (sia pure tutta in chiave di attualizzazione psicologica), ad altri che diresti di percettivita' di imminenze dinamiche. E lo spessore dell'evento si definisce formalmente attraverso quel particolare moto, tutto del Nostro, di rendere vibrante se non precario nel trascorrente dinamismo, la definizione delle immagini, si' da concorrere a strutturare situazioni in contestualita' dinamiche di accadimenti. Un particolare realismo che affiora in quella attenzione sostanzialmente evocativa che l'autore e' in grado di insinuare interamente nello spessore dell'evento.
A questa ricerca si affianca quella del tempo e del colore. Im magini, temi, ''eventi'' immersi nella densa luce di spazi aperti ma sempre uguali a se stessi se non per quei colori accecanti che definiscono le figure. Colori accesi, infuocati, caldissimi (Le quattro amiche, Due figure sedute, Sciatore che vola, Abbraccio coniugale) per scivolare lentamente in quella tinta quasi omogenea, che colora i muri, tra il grigio e il verde, fornendo la base a gran parte delle sue opere realizzate negli anni Cinquanta (e penso a L'incontro di pastori, Paesaggio collinare, La guerra, Figure sedute, Due ulivi). E' il colore dello spazio esistenziale, alone indefinito, quasi una sorta di pulviscolo che solidifica l'aria, colorando gli spazi fra i piani, amalgamando in un tutt'uno i diversi elementi della scena, nella quale si avverte la resa dell'immagine, quasi colta nella fissita' dell'attimo.
E' l'arte degli anni '40-'50 di Montauti che, dopo le prime ''prove'' raccoglie l'eredita' dei fauves e dei cubisti, in quel solidificarsi delle sue figure in strutture ove i piani taglienti di solidi geometrici si compenetrano, proiettati sulla superficie bidimensionale della tela. E' ancora ricerca. In quell'acquerellare della tela e ispessirla attraverso grumose pennellate sino a rendere il colore protagonista dell'atto pittorico.
Ed e' ancora ricerca come verifica attenta di una situazione esistenziale tracciata da un osservare in continuo aggiornamento, aprendosi a continue sperimentazioni di tecniche e di espressioni. Un processo di lenta e silenziosa crescita in quell'aria di novita' che spirava nell'Italia degli anni Cinquanta. Una densita' di crescita che assume echi di apertura internazionale con il ''Gruppo del Pastore Bianco'' che egli fonda nel 1963. Ed e' ancora ricerca artistica e critica che si allontana dai luoghi comuni, per assurgere a proiezioni costruttive dense di una pregnante qualita' morale. Famiglia di Pietracamela, Pastori seduti, Uomo e donna seduti tra le rocce, I pastori delle montagne azzurre, Paesaggio con Pietracamela, assieme al manifesto del movimento, le Pitture rupestri delle Grotte di Segaturo a Pietracamela (TE), sono opere che evidenziano quel bisogno di rinnovato colloquio che l'artista ha da istaurare con la sfera del quotidiano, in senso di domanda e offerta di umanita', spoglia di qualsivoglia esaltazione, priva di illusioni, di moralismi. Cosi' ancora una volta la ricerca condotta da Montauti sembra approfondire l'impostazione data da Boccioni al rapporto tra impressione e forma, segnalando come sia importante concepire ''in una forma la relazione plastica che esiste tra la conoscenza dell'oggetto e la sua apparizione''. E penso a Uomo che fuma, Mucche, Donna che fuma, Paesaggio con Pietracamela. Ricerca, ancora ricerca, continua ricerca.
E tuttavia, se per lo studioso e il critico riesce spontaneo l'esercizio di trovare corrispondenze e riferimenti, con il desiderio di tracciare un itinerario cronologico, in margine alla cosiddetta ''evoluzione'' dell'artista, nel caso di Montauti, le abituali categorie di giudizio in cui calare lo scandaglio dell'indagine critica risultano insoddisfacenti. Certo, si possono indicare interessanti accostamenti, dalla corposita' delle figure masaccesche ai Nabis e ai Fauves, suggeriti dallo stesso artista; da Van Gogh a Matisse, da Picasso a Legér, da Tanguy a De Kooning. Buttare la' il ricordo di Maccari o persino di Licini, risalire indietro a Ensor e Klee; rivendicare analogie con Wols o con Fontana nelle immediate imminenze dei ''tagli'' avvertiti nelle forme. Oppure anticipare contatti e suggestioni con il mondo della grafica animata, (possiamo osare un parallelo con la poesia colorata di Lele Luzzati?). Tutti nomi legittimi s'intende, per un curioso, un desideroso di conoscere, un interessato all'esperienza come Montauti. Ma ogni volta che si cerca di inquadrarlo, il nostro artista fa un passo in la', si sposta, inafferrabile. Esattamente come appare nelle foto dove l'espressione, il gesto, lo sguardo e' sempre altrove. perche' la sua mente e il suo gesto sono sempre in movimento e appaiono gia' altrove, avanti di un passo o di un secondo, a inseguire un pensiero che frulla via, a cercare una parola nuova da dire, a rivolgersi verso un interlocutore ''altro''. perche', come si fa a ingabbiare entro i canoni, i binari, le sbarre della critica una pittura cosi' libera, pura,sincera? Montauti respira e dipinge; passa per la casa e aggiunge una nuova pennellata a un vecchio quadro, ci ripensa e cancella quello che aveva gia' fatto. Sicche' mai fu piu' confacente il riferimento a ''nostra pittura quotidiana'' per la sua arte, difficile da spiegare come il dipanarsi dei giorni, l'accavallarsi delle emozioni, l'accendersi di forme e colori, in margine ad un vissuto assai ricco e fecondo di suggestioni e trasalimenti. A varieta' di tecniche, formati, dimensioni, soggetti non corrisponde una deliberata scelta poetica ma la libera scelta di uno spirito senza dogmi se non quelli dell'indipendenza e dell'intelligenza e che, proprio nel campo della pittura, sente di non avere obblighi da adempiere. Si capisce allora che questo suo ''fare pittura'' abbia offerto per decenni a Montauti l'occasione rara e preziosa per guardarsi in faccia senza troppo roteare gli occhi, senza nascondersi dietro gli occhiali, senza poter fuggire altrove. Persino gli anni delle sue tele dall'apparente tono ''informale'' mostrano la continua ricerca di un'arte ''altra'', spogliata dai lacci inibitori della forma, e quindi in grado di esprimere l'inesprimibile, il pulsante lavoro dell'inconscio, come pure la coscienza vigile di un tempo storico e di una posizione sociale, accompagnati dal costante franare del concetto dell'unita' dell'arte. La sua pittura viene cosi' progressivamente sostituita, fagocitata dal gesto, dall'azione, dall'opera destinata a vivere come occupazione di uno spazio pensato per altri scopi. Dunque, a fianco e dentro questo processo artistico, il Nostro rifiuta il mercato e il presunto sfruttamento borghese dell'opera mentre l'arte, senza centro né sacralita', si sfarina. Le sue tele sono un inno al colore e per il colore, che e' in grado di trasmettere sensazioni e di dare forma all'ansia progettuale dell'artista. Cosi' fra il '70 e il '79, anno della sua morte, la pittura di Montauti si definisce nella riflessione del segno. Egli dipinge partendo da tratti in diagonale, linee, righe, segni avvolgentisi su se stessi, punti che creano una spazialita' stranita, forse frutto di un'esplosione, forse frutto di un processo generativo che tracima sulla superficie dipinta. Percio' lo spazio pittorico si offre come spazio sincopato della natura che, un tempo, aveva accomunato e identificato la roccia con l'essere umano, l'uomo, la donna, l'animale e che adesso si trasforma in un fiorire di colori e non-colori, liberi, solari, moncromi senza contendere gli spazi. In una sorta di horror vacui dall'intensa armonia musicale che l'occhio sa percepire e amare. Paesaggio di cespugli, Ulivi, Paesaggio con trasversalita' materica, Paesaggio con vegetazione, Lettera, Rarefazione trasversale, Paesaggio con complessita' ritmiche e decine di altre tele, in un vorace, continuo e incessante strappo al tempo che fugge e porra' fine alla sua ricerca. In questo modo il pittore si dichiara e si moltiplica fino agli ultimi straordinari dipinti. A partire proprio dagli inizi degli anni '70, quando grumo, graffio, pasta, frego nelle tele sembrano attestare la perdita della propria identita' e invece ''sono'' inconfondibilmente, assolutamente, veramente il Nostro. Proprio lui.
Paola Di Felice
|