Famiglia di Pietracamela, 1973

Attualità del percorso artistico di Guido Montauti

di NERIO ROSA

Non sarà facile dare a Guido Montauti il giusto rilievo nella Storia dell'Arte Italiana contemporanea, non perché manchino meriti o potenzialità espressive, ma perché complesso è il lavoro di definizione sistematica di un percorso artistico che, pur tenendo sempre fede ad una matrice novecentista, ermetica e primitivista, segue uno svolgimento attentissimo alle vicende della pittura moderna. Tanto che uno sguardo, anche rapido, dei suoi quadri più significativi dei vari momenti del suo operare potrebbe a ragione essere considerato un piccolo panorama delle tendenze artistiche emergenti in questo secolo.
Accanto alle difficoltà di un lungo studio approfondito di ricerca, necessario a togliere l'artista dall'isolamento di una posizione personale e limitata, è indispensabile non lasciarsi condizionare da un'immagine post-romantica e suggestiva, che vorrebbe Guido Montauti legato ("in primis" al mondo della sua montagna di Pietracamela e a numerose personali invenzioni più o meno fantastiche. Certamente all'artista non è mancato l'amore per il suo paese d'origine, né la migliore attenzione al paesaggio montano e collinare abruzzese; né hanno fatto difetto al suo lavoro inventiva e fantasia. Ma in Montauti tutte queste componenti si fondono in una organicità nella quale la libertà espressiva si affianca sempre a stimoli o a riflessi culturali dei quali va tenuto il conto maggiore. Montauti, infatti, è pittore, artista, testimone, sempre cercando nella sua personale visione un confronto dialettico, un incontro, una verifica che allargassero gli orizzonti di un messaggio mai limitato da un'elegia provinciale. Non è certamente però un voluto distacco da svolgimenti culturali che indusse Guido Montauti nel ventennio 1935-1955 ad operare in modo completamente autonomo. Tutti ricorderanno che in quegli anni i problemi legati alle vicende coloniali, belliche e postbelliche avevano nettamente il sopravvento; per cui un artista nato nel 1918 non poteva contare agli inizi su una indispensabile dialettica che lo tenesse giustamente informato sulle vicende artistiche europee del XIX e XX secolo. Ogni informazione, alla fine degli anni '30, è stata per Montauti una scoperta personale; ogni riflessione su caratteristiche espressive, uno studio appassionato ed intenso. E, quando orizzonti sempre più vasti gli si sono posti davanti, egli, negli anni '50, aveva maturato un proprio metodo di indagine nel mondo della pittura, rifiutando a priori letture facili e storiche a favore di una verifica personale ed irrinunciabile. Ogni indicazione che non avesse avuto il suo personale "filtro" di esperienza pittorica veniva da lui osservato con diffidenza, non per sfiducia, ma perché la conoscenza per Montauti non era né astratta né generica, ma sempre riferita ad uno spessore culturale che lo portasse ad un approfondimento personale. Ecco perché i suoi riferimenti non erano numerosi, ma sicuri, i suoi rapporti con le correnti ed i movimenti che avessero avuto evidenti connotazioni letterarie ed intellettualistiche, cauti, problematici e non privi di notazioni polemiche, quando la modernità o l'attualità avessero avuto l'aria di imporgli una moda, una regola, anche se giustificata da successi commerciali. A tal proposito, mi piace ricordare la sua profonda irritazione, al ritorno dalla sua seconda permanenza a Parigi, nei riguardi del comportamento del pittore francese Metzinger, il quale, già vecchio, "adattava" il suo importante cubismo, noto in tutto il mondo, alle esigenze di un mercato parigino a lui culturalmente tanto lontano. Montauti quindi ha sempre preferito "toccare con mano" non credere per fede; ma, come ho detto, erano le vicende storiche della sua giovinezza, più che il suo carattere, a portarlo su questa strada. Naturalmente, anche se fosse nato trent'anni prima e vissuto in grandi città, sedi di ampi dibattiti culturali, il suo temperamento non gli avrebbe consentito di accettare l'aspetto aneddotico e letterario del Futurismo; gli sarebbero parsi drammatici e troppo complessi sul piano psicologico gli espressionismi "di prima linea" e troppo macchinosi gli svolgimenti sperimentali dei vari gruppi di tendenza legati alle problematiche dell'architettura contemporanea o a "Valori Plastici".
Ma è necessario abbandonare subito le ipotesi e tornare al giovane Montauti della fine degli anni trenta, che si diploma in Ragioneria con l'interesse maggiore rivolto alla Pittura, alla quale aveva già dato un impronta personale di stampo novecentista. Il rapporto fra la cultura del Novecento e Montauti è uno studio importantissimo e ancora tutto da fare. Il modo "personale" con cui egli si avvicina a questo Movimento lo salva da componenti ideologico-letterarie e dal senso grandeggiante di un "monumentale" che pure lo affascina per la staticità di un impianto dalla solida struttura emergente. Ancora positivo per Montauti è il fatto che tale adesione egli la maturi nel tempo, con lentezza e con personali riflessioni, anche quando una tale scelta poteva apparire "ritardata" e "nazionale" per un pittore che mostrava di trovarsi a casa propria, dopo la guerra, a Venezia o a Milano e, in vari periodi dal 1948 al 1955, a Parigi. In questi giorni si è aperta a Venezia una mostra del "Novecento"; e sono lieto di leggere già le prime note critiche entusiastiche di una rivalutazione di questo Movimento, ingiustamente poco apprezzato finora, per tema degli intellettuali di apparire nostalgici e fuori moda. Per il decennale della morte di Guido Montauti non poteva capitare cosa più opportuna, poiché, pure nelle prime opere piene di immediatezza e riguardanti i momenti di vita, racconti e prime elegie, l'influenza del Novecento dà a Montauti una caratura non provinciale ed una solennità arcana che non è bizzarria del momento, ma una precisa scelta che avvicina il suo mondo quotidiano ad un linguaggio ermetico e primitivo di più ampia portata. Il merito di tali scelte culturali è così grandissimo se comparato, appunto, alle difficoltà del momento. La partenza per la guerra d'Albania e, poi, la prigionia nazista in Francia e la scelta di unirsi ai "maquis" nella lotta per la liberazione sono episodi dei quali Montauti non parlava volentieri, ma che hanno una grande importanza sul piano morale, poiché si collegano al suo modo di essere in pittura, scegliendo egli la vita e non la letteratura, compiendo il suo dovere di cittadino e di soldato senza rinunciare al suo mondo di artista. Appaiono così in una luce particolare i suoi lavori di Albania, realizzati con l'orgoglio smisurato di chi, pur trovandosi in condizioni di disagio e di sofferenza, non cerca attenuanti per i suoi lavori; che non chiedono alcuna benevola comprensione, ma che anzi propongono i caratteri personali di una elaborazione materica che porteranno Montauti fin da allora a superare schematismi timbrici e tonali per una operatività nella quale gli acquerelli e le tempere della tradizione accademica appaiono cosa vecchia e lontana nel tempo. Montauti conserverà sempre la capacità di elaborazione materica, dando così al suo lavoro un carattere attuale.
Alla modernità del linguaggio Montauti però non vorrà mai avvicinare contenuti di maniera, che forse gli avrebbero dato una immediata notorietà, ma che avrebbero snaturato la sua fisionomia. Egli non rinuncerà mai alla pittura come immagine, ai dettami figurativi della cultura Novecento, mantenendo un rigore per il suo lavoro ed una irritazione per le soluzioni facili, che lo porteranno su posizioni polemiche verso un certo astrattismo. La polemica di Montauti contro l'astrattismo nei primi anni cinquanta va oggi considerata in un momento giornalistico locale, e riguarderà, come ho detto, la sua ostilità verso le mode e le soluzioni facili. Egli infatti in quel periodo è impegnatissimo, e con grande fatica, ad esprimere le sue poetiche, nate tra le due guerre, con linguaggi nuovi e materici. In questa operazione egli non accetta indicazioni storiche dall'alto; come sempre vuole seguire il suo iter personale e scoprire di persona valori nuovi. Il suo impegno pittorico ha in partenza superato quella fase neo-naturalistica che portò Morlotti da una pittura intimistica ad un'astrazione graduale e meditata. Montauti ha fin dai primi anni cinquanta un suo ritmo della pennellata o della spatolata, un saper intervenire sulla superficie con modi inusitati ed immediati, tanto che egli non sembra aver nulla da imparare dagli artisti "autres" più celebrati. Ma mentre (ad es.) nelle opere di Burri, medico ed artista, anche lui prigioniero di guerra, è leggibile una matrice espressionistica ed esistenziale che richiama le "cose", in Montauti la stesura materica deve sempre avere un richiamo alle immagini, con una base che rimandi ad altro, ad una realtà contemplata che è già diventata categoria mentale sua e di chi, come lui, abbia osservato i caratteri essenziali del paesaggio e delle figure che lo popolavano. Sotto questo aspetto, Proust nel "Tempo ritrovato" dà una chiave di lettura del suo messaggio e del consenso che si aspetta dai lettori che può aiutarci a comprendere la volontà di Montauti a richiamare nel fruitore l'aspetto caratteristico di una realtà osservata brevemente e intensamente assorbita. La prova dell'interesse di Montauti per l'elaborazione materica nuova la troviamo nel fatto che egli nella seconda metà degli anni cinquanta mostrò un grande interesse per l'opera di Fautrier, non rinunciando, peraltro, a darne una coerente interpretazione personale: "Forse voleva dipingere delle scatole", diceva.
Egli aveva già eseguito sia le "colline" che riducevano al minimo l'aspetto grafico, sia le "facciate delle case", nelle quali una piccola finestra, appena delineata, o un brevissimo contorno del tetto richiamavano una funzione figurativa, così come i "campi di grano", cui restava una sola linea perimetrale o una piccola pietra a ricordo delle immagini del passato. Nella metà degli anni cinquanta l'elemento materico prende il sopravvento in modo definitivo, per ciò che riguarda la superficie elaborata. Montauti, cioè, si accosta più da vicino agli oggetti: è come se vedesse le cose con un teleobiettivo per isolare ciò che più gli premeva. Che questo momento nasca da un bisogno di maggiore astrazione ce lo dicono sia il lavoro, nel quale la parte disegnativa è ridotta al minimo, sia il suo stesso commento nel quale ricordava a tutti che una parte di un quadro figurativo, se ben individuata e sintetica, è in realtà un quadro astratto.
Anche per ciò che riguarda il collegamento con la gestualità dell'informale, Montauti procede con lo stesso principio, cogliendo il ritmo primario dei cespugli figurativi, moltiplicandoli e variandoli come per approfondirne ogni mistero, per poi passare infine ad una superficie ottenuta con un gesto ampio e controllato; che non perdeva il richiamo a momenti naturali, ma che realizzava un'immagine conclusiva di un percorso, nel quale nulla era affidato al caso, ma in cui la libertà espressiva si congiungeva con un linguaggio consapevole e maturo. Il fascino personale e materico di questi quadri gestuali degli anni settanta, (Montauti non improvvisò mai, ma sviluppò le sue tematiche gestuali in una dozzina d'anni) è notevole e si mantiene sempre nel verso giusto di una collocazione nuova e risoluta, ma che non rinnega una visione pittorica. Anni prima, Hartung aveva interessato Montauti; ma il suo risultato gli sembrava più vicino alla filosofia che alla pittura. "Il gesto è libertà, ma non dalla materia", diceva così con molta esattezza, anche se egli per materia intendeva qualcosa che facesse parte della pittura, una pittura però che sapeva evolversi senza repentini cambiamenti di rotta. Infatti non è necessario attendere l'ultimo decennio dell'attività di Montauti per cogliere nella sua pittura l'importanza del gesto, con un colore pertanto privo di connotazioni meramente rappresentative: ne è un esempio interessante "La Ginestra" che egli inviò al Premio Michetti nel 1956 e che non ebbe un giusto riconoscimento solo perché il ritmo vibrante delle pennellate gialle non poteva allora essere compreso nella sua proiezione materica futura.
Montauti ad un certo punto, intorno al 1960, dette vita ad un gruppo di lavoro: "Il Pastore Bianco". Le problematiche del lavoro di gruppo avevano interessato da tempo la critica militante; egli però intese il gruppo come necessità esecutiva più rapida, come un momento che consentisse a lui e ai giovani pittori teramani di arrivare all'essenziale senza perdere tempo, senza indugi e in una unità operativa di intenti. Il carattere "Novecento" lo ritroviamo nel senso del grandioso e del monumentale, nella essenzialità primitiva del tratto. Fece certamente bene, sia a Montauti che ai giovani pittori teramani l'esperienza del "Pastore bianco"; che partì con toni rivoluzionari non tanto per spirito polemico quanto perché si cercava in comune di superare il formalismo e il compiacimento che ogni indugio procura. Montauti da questa esperienza trasse una notevole carica per proseguire sui cammino della "non forma", del rifiuto più deciso verso un lavoro tradizionale.
Il recupero dell'immagine interiorizzata era da Montauti definito "realistico", sia che riguardasse immediati riferimenti, sia che trattasse argomenti storici. Sotto quest'ultimo aspetto, la sintesi realistica di Caravaggio e Van Gogh erano per lui un punto di riferimento, così come lo erano la capacità di Matisse di trovare soluzioni semplici senza rinunciare alla completezza della pittura.
Non sono riuscito invece a far parlare Guido Montauti di Goya, autore che egli conosceva benissimo ma del quale non parlava volentieri. Ne dedussi che Montauti era forse infastidito dai riflessi sociali della pittura di Goya e che preferisse studiarla senza quelle connotazioni letterarie che un dialogo con un appassionato d'arte avrebbe necessariamente portato. Per un approfondimento storico-critico della pittura di Montauti credo sia utile partire proprio da Goya, quello della "Quinta del sordo", che fornì tante indicazioni alla pittura europea dell'Ottocento e del Novecento e che potrebbe contribuire a definire meglio gli aspetti della cultura novecentista di Montauti. Se quindi, come io credo, Montauti chiede al suo osservatore il confronto con una realtà interiorizzata il risultato non ci rimanda all'elegia sentimentale verso i luoghi, ma si apre ad orizzonti che giustificano la loro ampiezza e la loro ricchezza espressiva con la sapienza di un linguaggio che consente all'opera di vivere con il fruitore, di reggere al tempo perché portatore di una dialettica sempre viva fra il particolare e l'universale.
Il discorso materico di Montauti e il suo anti-accademismo lo fanno uscire dai confini sistematici tradizionali, nel senso che i termini: acquarello, tempera, olio, così come quelli di: bozzetto, tela, pittura su pietra o sul coperchio di un bidone non costituiscono una classificazione di valori. Le differenze timbriche e tonali in Montauti sono state superate, come ho ricordato, dalla misura del gesto e dalla elaborazione della superficie; così un bozzetto, anche se può costituire la premessa di un'opera dalle dimensioni maggiori, ha in sé completezza ed autonomia essenziali. Anche una prima idea può essere conclusiva in una sua prima fase: non conosco bozzetti di Montauti che abbiano solo una funzione di preparazione.
Ho voluto indicare subito l'appartenenza di Montauti al Novecento e il suo impegno linguistico espressivo decisamente attuale, perché il breve excursus dei vari momenti, che, come dicevo all'inizio, possono rappresentare un punto di riferimento per una piccola storia delle tematiche culturali tra otto e novecento, ha sempre una indicazione primaria e non generica. Sarebbe un grave errore, infatti, nelle varie esperienze che Montauti ha fatto, nei vari periodi di lavoro e negli approfondimenti più o meno sistematici, cercare collegamenti superficiali o legati ad uno schema rappresentativo. Montauti infatti odiava le formule e dietro una immagine mostrava sempre un momento ermetico, davanti al quale anche il lettore più sprovveduto avvertiva lo spessore di un lavoro che andava bene al di là di un'indicazione immediata e rappresentativa. Egli inoltre al riferimento di invenzione, alla matrice popolare tanto evidente, sapeva sempre collegare un aspetto storico internazionale e culturale, tanto che la rappresentazione bidimensionale di partenza appariva subito come un pretesto che nascondeva una costruzione più solida e complessa.
Il messaggio contenutistico di Montauti è privo di ogni retorica, rifiutando da un lato una falsa ingenuità così come, dall'altro, riflessi intellettualistici. Egli non ama il simbolo, preferendo indicazioni rappresentative assai chiare, così come rifiuta complessità che avrebbero potuto riflettere momenti psicologici o freudiani. Egli passa da un'immagine semplice alla maturità della sua pittura, alla modernità della sua costruzione materica. La differenziazione dei vari periodi può essere fatta sulla scorta di un suo schema compositivo che egli nelle varie epoche fraziona o rinsalda a seconda delle necessità del suo messaggio.
Fatte queste precisazioni e senza la pretesa di ripercorrere compiutamente il suo iter operativo ed artistico, vorrei ricordare qualche tratto saliente di alcuni periodi, con l'inutile avvertenza che la mole di lavoro svolto da Guido Montauti lascia stupefatti, specie se consideriamo che ogni quadro è frutto di meditazione, lavoro, selezione rigorosissima. E il caso però di riflettere su alcuni aspetti, non per tracciare un bilancio, ma per proporre una lettura più attuale. Abbiamo già considerato quanto difficili furono gli esordi di Montauti e quante difficoltà egli dovette superare anche solo per ricevere informazioni necessarie ad organizzare un suo linguaggio innovatore. Sarebbe però un errore non valutare appieno i suoi lavori del decennio 1938-1948 perché esistono in nuce nelle pitture di piccole dimensioni, (che, come ho già detto, non sono bozzetti né appunti), tutti quegli elementi di solidità, di ricchezza di superficie, di semplicità di racconto, di costruzione dell'immagine e, soprattutto, di elaborazione materica che troveranno validi approfondimenti nelle opere che seguiranno.
Pur non mancando la sua pittura giovanile di aspetti ermetici e pur presentando tagli compositivi solidi e stagliati, va detto che l'adesione chiara di Montauti al Novecento non avverrà quando questo movimento era in auge. Egli lo recupererà più tardi, in una fase di riflessione; da giovane non partirà da dettami, perché egli, più che aderire a problematiche, effettuerà una serie di analisi per una doverosa esperienza che era al tempo stesso espressione, ricerca, collegamento con una realtà storica. Montauti in modo personale rivivrà così il cromatismo tonale che ricorda i Macchiaioli, senza trascurare scorci che richiamano Corot, gli Impressionisti, Cézanne. Altre volte egli cercherà un'efficacia timbrica e plastica, con tonalità scure che gli faranno tanto amare i "neri" di Manet.
Che l'elemento cromatico e materico abbia in lui predominanza, lo dimostra il fatto che figure, paesaggi, nature morte non hanno in lui, agli inizi, una differenziazione illustrativa. Pur mancando inoltre di un momento rappresentativo ed elegiaco e pur desiderando sempre ricondurre ogni visione al taglio costruttivo e all'elaborazione prescelta, Montauti non si sentirà attratto da esperienze surrealistiche; un grande interesse egli avrà sempre per la pittura metafisica, che del surrealismo rappresenta un momento molto particolare. Della metafisica Montauti apprezzerà la limpidezza della stesura, la costruzione architettonica, l'assenza di ogni dinamica. L'amore per il quotidiano, per l'immagine domestica, sia interna che esterna, porterà Montauti ad interessarsi molto all'opera di Giorgio Morandi. Di Morandi Montauti avrà sempre la ritrosia e la capacità a sapersi guardare intorno. Parrà strano tuttavia che si debba affermare che mai Montauti abbia preso, anche sul piano analitico, qualche elemento Morandiano. Montauti conosce ed apprezza Morandi quando aveva già realizzato opere che possiamo definire morandiane per taglio e costruzione. Il nostro quindi non si avvicina mai per imitare o per ricevere indicazioni, ma perché nella sua pittura ha già trovato un motivo di collegamento. Così avviene anche per Rouault, che egli mostra di apprezzare quando la sua adesione al 900 gli fa stagliare le figure, gli oggetti, i quadri stessi su un fondo nero, quasi che i suoi elementi elaborati dovessero emergere da un'antica memoria. Il richiamo a Rouault è evidente; ma è, come per Morandi un punto di arrivo non di partenza. Anche i collegamenti con Van Gogh, Gauguin, i Nabis, i Fauves e, nell'ultima serie di figure, con Picasso, non nascono per imitazione, ma per incontro operativo, quando cioè il suo gesto o l'impasto cromatico lo richiedevano. Si trattava però sempre di un collegamento "a posteriori", perché mai legato a motivi letterari o contenutistici, mai utilizzato in modo generico o accademico, nel senso comunque di una derivazione formale. Di Van Gogh infatti egli utilizza in modo decisamente materico quella che egli chiama la "logica del ritmo", con una espressione che egli usava più di 30 anni fa e che oggi ci appare in tutta la sua illuminata attualità. Anche Modigliani lo interessò con la stessa intensità, specie quando gli fece capire che il suo modo di procedere in libertà e senza indugi poteva garantirgli una cittadinanza pittorica anche a Parigi. La vivacità cromatica di Gauguin e degli espressionisti tedeschi lo interessò moltissimo; ma di questi ultimi egli volle ignorare i contenuti esistenziali; Montauti voleva fin dagli ultimi anni quaranta una ricchezza di superficie più che un ripiegamento interiore.
Questo incontrarsi a metà strada con le grandi correnti e i grandi artisti approfondiva le conoscenze e personalizzava ogni discorso, ma, sul piano della diffusione del suo messaggio contro ogni formalismo e contro ogni convenzione, difficile era, e forse è ancora oggi, imporre un risultato artistico al tempo stesso ambizioso e dissacrante.
Certamente dopo la guerra, quando Giuseppe Marchiori lo invitò da Milano a recarsi a Venezia presso Virgilio Guidi, che rappresentava un punto di riferimento per i nuovi talenti italiani, Montauti sapeva che non avrebbe avuto vita facile. E, pur apprezzato ed invitato con un'opera alla Biennale di Venezia, si accorse subito che una notorietà maggiore avrebbe necessitato di una organizzazione forte e specifica. Egli però non era disposto ad affidare ad altri il proprio lavoro, non voleva che gli altri lo presentassero snaturandolo o commercializzandolo senza comprenderne lo spessore culturale.
Un'ottima occasione Montauti la trovò a Parigi: sembrava che Salvatore Di Giuseppe, un ambizioso mecenate di origine siciliana, potesse indicarlo al mondo come una voce nuova ed ingenua. I mezzi non mancavano, gli incontri e le critiche positive nemmeno. E rimasto un mistero il fatto che Montauti abbandonasse un risultato che per molti poteva apparire lusinghiero, per tornare a Teramo e preparare da qui altre autonome sortite parigine. Ho visto solo poche fotografie in bianco e nero degli oltre 200 quadri che Montauti lasciò a Salvatore Di Giuseppe. So che questo mecenate avrebbe voluto appunto presentarlo come pittore della montagna, una sorta di Rousseau di Pietracamela. Ed a Pietracamela egli giunse, un'estate degli anni cinquanta a bordo di una grossa Cadillac.
Personalmente non sono stato mai convinto che il linguaggio pittorico e materico di Guido Montauti si prestasse all'elegia, alla letteratura facile, ai contenuti elementari. Ma ciò che Montauti non avrebbe potuto accettare dell'immagine primitiva e semplice, che tuttavia lo affascinava, era l'ingenuità. Il primitivismo novecentista non poteva ridursi ad ingenuità senza perdere il connotato primario di sapienza pittorica che lo legava alla sua base culturale, autonoma ma non fuori dal tempo. Per questo non credo che il rifiuto di Montauti a risolvere tutti i suoi problemi economici, ad "arrivare", a vedere realizzato il suo personaggio in modo più utile alle lusinghe del tempo, sia stato un errore o una scelta non ponderata. Montauti aveva un suo pudore ed una sua privacy; era difficile farlo parlare delle cose a cui teneva di più; anzi alcuni elementi del suo carattere non facilitavano l'approfondimento dei colloqui, riservato com'era nel trattare i temi più impegnativi. Ma egli, pur senza dichiararlo esplicitamente, non si riconosceva nell'immagine quasi "naif" che Parigi voleva cucirgli addosso. Infatti, di Rousseau non si stancava di ricordare a tutti, in quegli anni, le qualità culturali e i riflessi universali della pittura: "Il doganiere non era affatto un ingenuo né un semplice", soleva ripetere Montauti; sono certo che egli si riferisse tanto a Rousseau quanto a se stesso, non ignorando le implicazioni culturali del suo impegno. Egli non era comunque un rassegnato e con calma aveva cominciato a progettare negli anni settanta sia una sua attività espositiva che una sua presenza editoriale, anche qui senza delegare e seguendo passo passo ogni progetto. Non vi è dubbio che ci avrebbe lasciato sia altre opere importanti, sia tanti segni per una migliore lettura critica del suo lavoro. Difficile fu il suo esordio, drammatica e repentina la conclusione della sua attività. Ci restano però una ricca testimonianza di impegno e l'elevata qualità di un lavoro che non attende ora a mio avviso solo celebrazioni ed esposizioni, ma uno studio sistematico e non episodico.
La mia testimonianza su Guido Montauti deve necessariamente estendersi alla sua attività didattica, che ha giocato un ruolo importante sia per lui che per la nascita del Liceo Artistico di Teramo.
Quando nel 1969 fui nominato Direttore di questo nostro Liceo al suo sorgere, la mia preoccupazione e quella del Commissario Assunta Formisani, fu quella di dare all'Istituto nascente il maggiore prestigio possibile. Facemmo molti tentativi perché Montauti accettasse di insegnare nella nostra scuola; ma egli reclinava ogni invito, anche se la nuova istituzione scolastica sembrava incuriosirlo. Egli ci rispondeva di essere contrario all'insegnamento sia perché temeva di togliere tempo prezioso al suo lavoro, sia perché l'insegnamento, tante volte propostogli, non lo interessava. Era inoltre preoccupato di non conoscere gli aspetti strettamente didattici della scuola. Io ero particolarmente addolorato di ciò, anche perché in quella fase lo sentivo particolarmente vicino. Fu Assunta Formisani a proporre una risoluzione, apparentemente indelicata, ma che doveva rivelarsi fruttuosa: nonostante il rifiuto espresso oralmente, ella volle inviare ugualmente la prima nomina provvisoria di un mese per l'insegnamento di Ornato Disegnato. Fu quella provvisorietà che convinse Montauti a fare questa piccola prova ed a partecipare poi al concorso che lo avrebbe inserito stabilmente nella scuola.
Occorre dire subito però che le preoccupazioni e le incertezze di Montauti furono di brevissima durata, poiché egli stabilì immediatamente con gli allievi un rapporto di così pregnante umanità da lasciare tutti sorpresi. A metà anno scolastico entrò nella Presidenza e mi disse: "non pensavo che la scuola mi interessasse tanto, invece mi interessa e mi piace". Tirai un sospiro di sollievo, era fatta. Solo la morte ce lo avrebbe tolto nove anni dopo.
Di Montauti docente mi piace ricordare la puntualità, la partecipazione, l'attaccamento agli allievi, tutte doti inaspettate in un'artista della sua esperienza. Egli amava frequentare molto la biblioteca della scuola e parlare con gli allievi di arte contemporanea; ammirevole era la sua capacità di intervenire didatticamente "nel rispetto della personalità dell'allievo". Su un altro aspetto particolare, perché per lui inusitato, vorrei portare una testimonianza. Montauti era un artista di poche parole; per questo io pensavo che si sarebbe infastidito nel parlare con una cinquantina di genitori durante il primo degli incontri scuola-famiglia; invece, con mia grande sorpresa, senza mostrare di stancarsi, colloquiò affabilmente e con gran piacere con tutti i genitori presenti per oltre tre ore e mezza. Alla fine della serata era felicissimo, aveva fatto un resoconto completo delle attività didattiche dei suoi alunni, aveva incontrato un "campionario" vario, anche se a lui non sconosciuto, di persone della nostra provincia. Non l'avevo mai visto socializzare con tanto entusiasmo e ne dedussi che, come per la pittura, egli avesse dei valori nascosti da apprezzare nei modi e nei tempi giusti.
La presenza di Montauti nella scuola è stata serena e intensa; didatticamente aveva rari entusiasmi e sempre per alunni cui le difficoltà economiche o familiari impedissero una resa migliore. Ma soprattutto mi corre l'obbligo di testimoniare che mai nella scuola egli ha fatto pesare agli altri la sua grande esperienza di artista, avendo per tutti sempre un atteggiamento di pacata benevolenza. Quando gli chiedevo come si trovasse con i suoi alunni, con le sue classi, mi rispondeva: "Ci vivo bene". Non credo che egli non riflettesse sulla differenza tra stare e vivere; per questo sono certo che in tutta consapevolezza egli fosse soddisfatto della sua esperienza di insegnante e della scuola come luogo di lavoro, di incontro, di vita.

(da "Notizie dell'Economia Teramana" - Teramo, maggio 1989)